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Mahsa Amini

Nada Khaled Mansour

Una martire per i diritti di tutte le donne


Mahsa Amini. Un nome che ha fatto il giro del mondo. Una storia che ha spezzato miliardi di cuori. Ma una storia che spesso viene riassunta e banalizzata come “la donna che è stata uccisa perché non portava correttamente il velo”.

Mahsa Amini ha fatto molto più di questo, è stata una martire, il simbolo di un popolo che ha deciso di far sentire la propria voce al mondo, un popolo che non ha più voglia di stare in silenzio.


Gli eventi e le proteste che vedono l’Iran protagonista in questi giorni hanno senza alcun dubbio una rilevanza storica molto importante, una voce che non solo si sta facendo sentire in ogni angolo del pianeta, ma la cui eco rimarrà per i secoli a venire.


Tuttavia, questo articolo non vuole essere un’analisi storica di questi avvenimenti, non vuole andare a vedere quali sono le situazioni passate che hanno portato a quello che è l’Iran di oggi, quanto piuttosto un’analisi di come questo evento è stato percepito dal mondo occidentale, un mondo che ha un passato ed un retaggio culturale completamente diverso da quello medio-orientale di un paese islamico.


Per questa ragione ha senso fare un passo indietro, analizzando altre storie, come per esempio quella di Saman Abbas, una diciottenne di origine pakistana, uccisa dal padre per essersi rifiutata di accettare un matrimonio combinato. Sono innumerevoli i nomi di donne uccise per motivi simili, motivi che semplificando sembrano avere in comune una cosa: l’Islam.


La quantità di persone che ha individuato il problema nel velo e non nello stato dittatoriale iraniano non sono state poche, alcune con una risonanza mediatica non indifferente. La visione del velo come segno di sottomissione ed oppressione è radicata nella cultura occidentale, senza dubbio alimentata da eventi come quelli che si stanno tenendo in Iran in questi giorni.


Ma la verità, si sa, è sempre più complicata delle semplificazioni che il nostro cervello fa per essere in grado di leggerla e comprenderla.


Spostandoci geograficamente, ci rendiamo facilmente conto che il problema non è il velo. A questo proposito non bisogna dimenticare i numerosi tentativi di introdurre l’hijab ban, ovvero il divieto di indossare il velo, non solo in India, uno stato che è culturalmente molto lontano da noi, ma anche in stati europei che sono nel mondo il simbolo di libertà, tra i quali troviamo Francia, Belgio e Danimarca.


Analizzando dunque questi avvenimenti da un punto di vista globale possiamo giungere a due conclusioni fondamentali: la prima riguarda la dittatura, mentre la seconda riguarda il controllo da parte degli uomini del corpo e delle scelte delle donne.


La differenza tra ciò che è successo negli stati europei per quanto concerne il divieto dell’hijab, e quello che è successo in Iran a causa dell’imposizione dello stesso, giace semplicemente nella possibilità che si ha in occidente di protestare, diritto imprescindibile in uno stato democratico. La dittatura iraniana, d’altro canto, si arroga il diritto di rifiutare le opinioni del popolo, di vietare ogni tipo di critica o protesta, spegnendo queste ultime nel sangue, creando vittime e martiri.


La seconda conclusione, al contrario, non vede alcuna differenza tra Francia, Iran o India. Anzi, individua una matrice comune dietro le decisioni descritte, una matrice che punta sempre a limitare la libertà delle donne nella scelta di chi essere, una limitazione della propria identità, che sia essa religiosa, politica o personale.


In un mondo che sembra star facendo passi avanti per quanto riguarda l’emancipazione femminile, questi atteggiamenti limitatori, siano essi a livello politico, familiare o sociale, stanno diventando spaventosamente frequenti, con il vano obiettivo di zittire la voce sempre più forte delle donne che vogliono la loro libertà.


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