Lo studio di come una frase viene composta e l’identificazione di tutti i suoi diversi elementi -soggetto, predicato verbale, complementi- si chiama analisi logica. Bel nome: è proprio vero che creare una frase sia un processo che richiede logica. Ma quando si studia una lingua, non si inizia dall’analisi logica, bensì dall’analisi grammaticale. Si inizia dalle regole base dei nomi, pronomi, aggettivi e verbi, e ognuno di questi deve essere categorizzato: è nome proprio o comune? Di persona o di cosa? È presente, passato o futuro? È maschile o femminile?
Mi è sempre piaciuta la grammatica. La sicurezza delle regole. Mi piace che si parta tuttə da basi comuni per capirci ma poi si riesca ad avere ognunə il proprio stile.
Ma lo stile, la sovranità del testo, il proprio tocco personale non possono prescindere dalla grammatica.
Quindi: perché sono un’ingegnera? Perché la grammatica italiana dice che la regola è di utilizzare il femminile quando si sta parlando di una donna.
La questione divide inutilmente, e sono convinta che sia una di quelle discussioni che si spegnerà da sola quando abbastanza persone si abitueranno all’uso -grammaticalmente corretto- dei femminili professionali. È infatti questione di abitudine quella che viene definita da alcuni cacofonia in relazione a questi termini. Utilizziamo ogni giorno innumerevoli parole “brutte” senza porci il problema del fatto che suonino male. Una breve selezione delle mie spreferite: ascella, scroto, cuccagna. Nessuno, purtroppo, si lamenta di quanto suonino male. Nessuno pensa che sia giusto non usarle, quando servono, perché brutte. Il vero problema non è la piacevolezza delle parole, quanto l’abitudine a sentirle pronunciare.
Il grande impatto della cultura e della società nella questione dei femminili professionali è provato dal fatto che alcuni termini che ora sono criticati, quali medica o giudicessa, erano in realtà già in uso in passato quando le donne ricoprivano i rispettivi ruoli. La caduta in disuso è quindi dovuta al fatto che nessuna donna ha avuto accesso a quei ruoli per un tempo abbastanza lungo da far suonare ora “sbagliati” quei termini. Tutte le professioni tipicamente considerate femminili nella nostra società non hanno avuto alcuna controversia quando si è dovuto declinare il nome comune di persona rispetto al genere.
A chi leggendo stia pensando che questo discorso può anche essere corretto ma la questione non è urgente -“i problemi sono ben altri”- vorrei far notare che il linguaggio è ciò che ci permette di pensare, immaginare e comunicare. È la cosa che ci rende umani. Nuove parole vengono inventate quando qualcosa di nuovo viene scoperto o creato, in quanto senza un nome che lo definisca non si potrebbe parlare di quel qualcosa. La mancanza della parola per designare un concetto di fatto toglie la possibilità del concetto di esistere. Allo stesso tempo il modo in cui parliamo forma quello che pensiamo.
Lera Boroditsky, cognitive scientist, racconta che nelle culture in cui esistono più nomi per le diverse gradazioni dei colori le persone dimostrano di notare più facilmente queste variazioni. Per esempio, consideriamo i colori blu e azzurro: per noi Italianə sono due colori diversi e li distinguiamo senza fatica; al contrario chi parla inglese, una lingua che chiama “blue” e “light blue” le due sfumature, tende a considerarli lo stesso colore. La dottoressa Boroditsky fa numerosi altri esempi a supporto dell’importanza delle parole, ma credo che questo da solo basti a dimostrare quanto i termini che usiamo possano modificare come vediamo il mondo.
Quindi si, l’attenzione all’uso dei femminili corretti -ed anche quello di un linguaggio inclusivo, vedi l’articolo sullo Schwa pubblicato sempre sul nostro sito- è fondamentale e urgente. Definirmi ingegnera è quindi, oltre che corretto grammaticalmente, anche un modo per dimostrare che anche le donne possono essere ingegnere. In una società in cui ancora le facoltà scientifiche vedono percentuali di ragazze iscritte molto inferiori alla metà, serve dare le parole alle bambine per potersi immaginare scienziate, architette e ingegnere. In una cultura dove le istituzioni politiche sono a netta maggioranza maschile, serve spiegare che si può essere anche ministre, da grandi. E serve farlo da ora, perché il processo è lungo e non c’è tempo da perdere.
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